1. Le premesse internazionali
L’ attenzione emergente negli ultimi anni in Italia nei confronti dell’apprendere per competenze e del tema ad esso connesso della certificazione delle competenze, trova le sue radici nelle ragioni sociali, storiche e culturali che avevano attivato alcuni anni prima a livello internazionale l’attenzione nei confronti di tale tematica, in un dibattito così vivace che Bottani ha definito lo “tsunami delle competenze” (Bottani, 2007, p.27).
Un momento saliente si può riconoscere verso la fine degli anni ’80, quando si manifestò da parte di grandi organizzazioni internazionali come UNESCO e OCSE un interesse emergente nei confronti degli indicatori internazionali dei sistemi scolastici, alla ricerca di criteri che ne garantissero la qualità e l’efficacia relativamente a diversi parametri (pedagogico-didattici, organizzativi, di politica scolastica, logistici…). Gli sforzi per superare l’approccio basato per lo più sulle conoscenze e sulle discipline imperante fino agli anni ’50 si erano già manifestati a livello internazionale: tra gli anni ’60 e’80, una grande attenzione, maturata molto prima in ambito anglosassone, molto più tardi in Italia e con maggiore lentezza nella scuola superiore rispetto alla scuola primaria, era stata rivolta a spostare l’ottica dai contenuti agli obiettivi di apprendimento. Tale spostamento però rischiava di isterilirsi in un’analisi esasperata di obiettivi generali e specifici, con il rischio di perdere di vista quell’ attenzione all’allievo che si voleva invece conquistare. Negli anni ’80 si era aperto, come sviluppo del grande tema dell’uguaglianza delle opportunità educative, il dibattito sugli standard formativi minimi da conseguire in particolare al termine della scuola dell’ obbligo. Ma quasi contemporaneamente si definiva il contrasto tra l’approccio nomotetico sottostante il concetto di standard e quello idiografico: alcuni studiosi, in particolare E.W.Eisner (1979, 1982) contrapponevano il secondo al primo in nome della personalizzazione e della definizione di soglie che non coincidessero con livelli minimi uguali per tutti. Tra l’altro l’approccio degli standard sembrava caratterizzato ancora da una attenzione più disciplinare-settoriale che integrata-pluridisciplinare. Tra l’inizio degli anni ’60 e gli anni ’90 si era svolta l’indagine IEA, che aveva prodotto un primo insieme di indicatori sulle conoscenze in matematica, scienze e lettura, ovvero nelle discipline considerate fondamentali. Alla fine degli anni ’80 l’OECD-OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico) promosse il progetto INES (International Indicators of Education Systems), con apertura a competenze di base non cognitive e alla questione delle modalità di valutazione (Bottani, 2007, p.32). Nel ’92 l’OCSE pubblicò, con cautela, il primo insieme di indicatori. E poi … non più solo INES ma anche NOBS (Non Outcomes Basic Skills), CCC (Cross Curricular Competences), GOALS (Goals Orientation and Attainement in Learning System) e, verso la fine degli anni ‘90, promosso dall’OECD-OCSE, il PISA ( Programme for International Student Assessment), che nel 2000, 2003, 2006, 2009 ha sottoposto a valutazione le competenze matematiche, scientifiche e nella lettura degli studenti quindicenni. Ad oggi, essa rappresenta la più importante ed estesa fra le indagini comparative internazionali sulle competenze , con l’obiettivo di verificare se e in quale grado gli studenti sedicenni possiedano le competenze di base in lettura, matematica e scienze fondamentali per l’esercizio della cittadinanza attiva, per proseguire negli studi e accedere al mondo del lavoro. Tali prove possono anche essere considerate come un modello nella prospettiva della didattica autentica, capace di mettere alla prova gli allievi su problemi simili a quelli della vita e di mobilitare saperi interconnessi, conoscenze intrecciate ad abilità e non solo contenuti. I progetti che abbiamo fino ad ora citati erano rappresentati da una serie di acronimi diversi, ma la direzione e lo sforzo appariva ed appare comune. E accanto ad essi vi fu anche un fiorire di metafore, da quella alimentare-scoutistica di paniere delle competenze vitali (survival Kit), a quelle architettoniche-ingegneristiche, come zoccolo comune delle conoscenze e nuclei fondanti. Non è un caso che il bisogno di elaborare il concetto di competenza si sia verificata verso il volgere degli anni ’80. Si sviluppavano infatti nuovi campi di ricerca integrati, nuove discipline, la crescita esponenziale del sapere da un lato, dall’ altro un modo diverso di elaborarlo e di veicolarlo grazie alla diffusione dei computer e alla nascita di internet e in particolare del web semantico e interattivo (web2.0). Tutto questo, che in qualche modo interpretava ed esprimeva il paradigma costruttivista di conoscenza condivisa e negoziata , poneva le basi, nella crescente mobilità nel pianeta, di quella che poco più tardi verrà definita la “società della conoscenza” (Delors J., 1994) e sollevava il problema di nuovi modi dell’apprendere. Parallelamente, si profilava all’orizzonte anche una nuova mobilità del mercato del lavoro legata alla globalizzazione dell’ economia. Emergeva in questi anni l’ insofferenza nei confronti di quella didattica per obiettivi e delle collegate tassonomie che pure avevano rappresentato un contributo all’insoddisfazione nei confronti della scuola delle discipline e del sapere teorico, ed insieme l’insofferenza per i curricoli lineari ad essa connessi, a favore di modelli di curricolo reticolari, ispirati al principio di complessità e a matrici di tipo costruttivistico, con attenzione ai tratti personali di chi apprende, agli stili cognitivi e alla varietà delle forme di intelligenza, alle dimensioni non propriamente cognitive dell’apprendere. Queste ultime si affermavano con decisione nella definizione di competenza data nel Progetto DeSeCo (Definition and Selection of Competences), OCSE, 1997, come “capacità di rispondere a specifiche esigenze oppure di effettuare un compito con successo e comporta dimensioni cognitive e non cognitive: le competenze chiave sono competenze individuali che contribuiscono ad una vita ben realizzata e al buon funzionamento della società, implicando la mobilitazione di conoscenze, abilità cognitive e pratiche, come pure di componenti sociali e comportamentali quali attitudini, emozioni, valori e motivazioni.” (Ceriani, p. 11). A livello nazionale è da ricordare la definizione data dall’ISFOL sulle competenze trasversali, nella quale pure compare l’attenzione alle componenti non cognitive: un insieme di abilità di ampio spessore che sono implicate in numerosi tipi di compiti, dai più elementari ai più complessi, e che si esplicano in situazioni tra loro diverse e quindi ampliamente generalizzabili. La loro individuazione può essere frutto dell’analisi e della scomposizione dell’attività del soggetto al lavoro posto di fonte al compito. Tale analisi consente di enucleare tre grandi tipi di operazioni che il soggetto compie, fondate su processi di diversa natura, cognitivi, emotivi, motòri. L’inizio del nuovo millennio, oltre a vedere la prosecuzione del Programma OCSE-PISA, viene marcato dal riconoscimento dato dal Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000 al ruolo determinante svolto dall’istruzione quale parte integrante delle politiche economiche e sociali e dei processi di cambiamento attraverso il lifelong learning. Dopo questo evento e nella prospettiva della creazione di un quadro comunitario unico per la trasparenza delle qualifiche e delle competenze necessaria nella nuova mobilità nel continente, vengono emanate quattro importanti raccomandazioni mirate a creare parametri comuni (quadri) nel raggiungimento degli obiettivi stabiliti: – 2001 il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione (QCER) e cfr. anche più sinteticamente qui – 2006 il Quadro di riferimento europeo sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente – 2008 il Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF) (Raccomandazione 2008/c 111/01/cE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23-04-2008) – 2009 il Sistema europeo di crediti per l’istruzione e la formazione professionale (ECVET) – 2009 il Quadro europeo di riferimento per la garanzia della qualità dell’istruzione e della formazione professionale (EQAVET) All’EQF fanno riferimento le definizioni di conoscenza, abilità, capacità che il Ministero ha proposto nel Documento tecnico allegato al Decreto 22 agosto 2007 e poi nella proposta definitiva del 23 aprile 2008. L’ EQF adotta un sistema basato sui risultati dell’apprendimento (‘learning outcomes’) vale a dire quello che uno studente ha imparato, ha capito, ed è capace di fare alla fine di un percorso di formazione (what a learner knows, understands and is able to do on completion of a learning process). I risultati dell’apprendimento sono definiti in termini di conoscenze, abilità e competenze trasversali (knowledge, skills and competence) e graduate in una scala di otto livelli dei quali i più alti rappresentano vertici molto elevati di competenza, più tipici del professionista, con forti tratti di responsabilità e autonomia (questi sono i due parametri più significativi su cui si articola la gradazione).
1. Le premesse internazionali
L’ attenzione emergente negli ultimi anni in Italia nei confronti dell’apprendere per competenze e del tema ad esso connesso della certificazione delle competenze, trova le sue radici nelle ragioni sociali, storiche e culturali che avevano attivato alcuni anni prima a livello internazionale l’attenzione nei confronti di tale tematica, in un dibattito così vivace che Bottani ha definito lo “tsunami delle competenze” (Bottani, 2007, p.27).
Un momento saliente si può riconoscere verso la fine degli anni ’80, quando si manifestò da parte di grandi organizzazioni internazionali come UNESCO e OCSE un interesse emergente nei confronti degli indicatori internazionali dei sistemi scolastici, alla ricerca di criteri che ne garantissero la qualità e l’efficacia relativamente a diversi parametri (pedagogico-didattici, organizzativi, di politica scolastica, logistici…). Gli sforzi per superare l’approccio basato per lo più sulle conoscenze e sulle discipline imperante fino agli anni ’50 si erano già manifestati a livello internazionale: tra gli anni ’60 e’80, una grande attenzione, maturata molto prima in ambito anglosassone, molto più tardi in Italia e con maggiore lentezza nella scuola superiore rispetto alla scuola primaria, era stata rivolta a spostare l’ottica dai contenuti agli obiettivi di apprendimento. Tale spostamento però rischiava di isterilirsi in un’analisi esasperata di obiettivi generali e specifici, con il rischio di perdere di vista quell’ attenzione all’allievo che si voleva invece conquistare. Negli anni ’80 si era aperto, come sviluppo del grande tema dell’uguaglianza delle opportunità educative, il dibattito sugli standard formativi minimi da conseguire in particolare al termine della scuola dell’ obbligo. Ma quasi contemporaneamente si definiva il contrasto tra l’approccio nomotetico sottostante il concetto di standard e quello idiografico: alcuni studiosi, in particolare E.W.Eisner (1979, 1982) contrapponevano il secondo al primo in nome della personalizzazione e della definizione di soglie che non coincidessero con livelli minimi uguali per tutti. Tra l’altro l’approccio degli standard sembrava caratterizzato ancora da una attenzione più disciplinare-settoriale che integrata-pluridisciplinare. Tra l’inizio degli anni ’60 e gli anni ’90 si era svolta l’indagine IEA, che aveva prodotto un primo insieme di indicatori sulle conoscenze in matematica, scienze e lettura, ovvero nelle discipline considerate fondamentali. Alla fine degli anni ’80 l’OECD-OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico) promosse il progetto INES (International Indicators of Education Systems), con apertura a competenze di base non cognitive e alla questione delle modalità di valutazione (Bottani, 2007, p.32). Nel ’92 l’OCSE pubblicò, con cautela, il primo insieme di indicatori. E poi … non più solo INES ma anche NOBS (Non Outcomes Basic Skills), CCC (Cross Curricular Competences), GOALS (Goals Orientation and Attainement in Learning System) e, verso la fine degli anni ‘90, promosso dall’OECD-OCSE, il PISA ( Programme for International Student Assessment), che nel 2000, 2003, 2006, 2009 ha sottoposto a valutazione le competenze matematiche, scientifiche e nella lettura degli studenti quindicenni. Ad oggi, essa rappresenta la più importante ed estesa fra le indagini comparative internazionali sulle competenze , con l’obiettivo di verificare se e in quale grado gli studenti sedicenni possiedano le competenze di base in lettura, matematica e scienze fondamentali per l’esercizio della cittadinanza attiva, per proseguire negli studi e accedere al mondo del lavoro. Tali prove possono anche essere considerate come un modello nella prospettiva della didattica autentica, capace di mettere alla prova gli allievi su problemi simili a quelli della vita e di mobilitare saperi interconnessi, conoscenze intrecciate ad abilità e non solo contenuti. I progetti che abbiamo fino ad ora citati erano rappresentati da una serie di acronimi diversi, ma la direzione e lo sforzo appariva ed appare comune. E accanto ad essi vi fu anche un fiorire di metafore, da quella alimentare-scoutistica di paniere delle competenze vitali (survival Kit), a quelle architettoniche-ingegneristiche, come zoccolo comune delle conoscenze e nuclei fondanti. Non è un caso che il bisogno di elaborare il concetto di competenza si sia verificata verso il volgere degli anni ’80. Si sviluppavano infatti nuovi campi di ricerca integrati, nuove discipline, la crescita esponenziale del sapere da un lato, dall’ altro un modo diverso di elaborarlo e di veicolarlo grazie alla diffusione dei computer e alla nascita di internet e in particolare del web semantico e interattivo (web2.0). Tutto questo, che in qualche modo interpretava ed esprimeva il paradigma costruttivista di conoscenza condivisa e negoziata , poneva le basi, nella crescente mobilità nel pianeta, di quella che poco più tardi verrà definita la “società della conoscenza” (Delors J., 1994) e sollevava il problema di nuovi modi dell’apprendere. Parallelamente, si profilava all’orizzonte anche una nuova mobilità del mercato del lavoro legata alla globalizzazione dell’ economia. Emergeva in questi anni l’ insofferenza nei confronti di quella didattica per obiettivi e delle collegate tassonomie che pure avevano rappresentato un contributo all’insoddisfazione nei confronti della scuola delle discipline e del sapere teorico, ed insieme l’insofferenza per i curricoli lineari ad essa connessi, a favore di modelli di curricolo reticolari, ispirati al principio di complessità e a matrici di tipo costruttivistico, con attenzione ai tratti personali di chi apprende, agli stili cognitivi e alla varietà delle forme di intelligenza, alle dimensioni non propriamente cognitive dell’apprendere. Queste ultime si affermavano con decisione nella definizione di competenza data nel Progetto DeSeCo (Definition and Selection of Competences), OCSE, 1997: “In prospettiva olistica, la competenza viene considerata “la capacità di rispondere a specifiche esigenze oppure di effettuare un compito con successo e comporta dimensioni cognitive e non cognitive: le competenze chiave sono competenze individuali che contribuiscono ad una vita ben realizzata e al buon funzionamento della società, implicando la mobilitazione di conoscenze, abilità cognitive e pratiche, come pure di componenti sociali e comportamentali quali attitudini, emozioni, valori e motivazioni.” (Bottani cit, p. 11). A livello nazionale è da ricordare la definizione data dall’ISFOL sulle competenze trasversali, nella quale pure compare l’attenzione alle componenti non cognitive: un insieme di abilità di ampio spessore che sono implicate in numerosi tipi di compiti, dai più elementari ai più complessi, e che si esplicano in situazioni tra loro diverse e quindi ampliamente generalizzabili. La loro individuazione può essere frutto dell’analisi e della scomposizione dell’attività del soggetto al lavoro posto di fonte al compito. Tale analisi consente di enucleare tre grandi tipi di operazioni che il soggetto compie, fondate su processi di diversa natura, cognitivi, emotivi, motòri. L’inizio del nuovo millennio, oltre a vedere la prosecuzione del Programma OCSE-PISA, viene marcato dal riconoscimento dato dal Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000 al ruolo determinante svolto dall’istruzione quale parte integrante delle politiche economiche e sociali e dei processi di cambiamento attraverso il lifelong learning. Dopo questo evento e nella prospettiva della creazione di un quadro comunitario unico per la trasparenza delle qualifiche e delle competenze necessaria nella nuova mobilità nel continente, vengono emanate quattro importanti raccomandazioni mirate a creare parametri comuni (quadri) nel raggiungimento degli obiettivi stabiliti: – 2001 il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione (QCER) – 2006 il Quadro di riferimento europeo sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente – 2008 il Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF) (Raccomandazione 2008/c 111/01/cE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23-04-2008) – 2009 il Sistema europeo di crediti per l’istruzione e la formazione professionale (ECVET) – 2009 il Quadro europeo di riferimento per la garanzia della qualità dell’istruzione e della formazione professionale (EQAVET) All’EQF fanno riferimento le definizioni di conoscenza, abilità, capacità che il Ministero ha proposto nel Documento tecnico allegato al Decreto 22 agosto 2007 e poi nella proposta definitiva del 23 aprile 2008. L’ EQF adotta un sistema basato sui risultati dell’apprendimento (‘learning outcomes’) vale a dire quello che uno studente ha imparato, ha capito, ed è capace di fare alla fine di un percorso di formazione (what a learner knows, understands and is able to do on completion of a learning process). I risultati dell’apprendimento sono definiti in termini di conoscenze, abilità e competenze trasversali (knowledge, skills and competence) e graduate in una scala di otto livelli dei quali i più alti rappresentano vertici molto elevati di competenza, più tipici del professionista, con forti tratti di responsabilità e autonomia (questi sono i due parametri più significativi su cui si articola la gradazione).