…Lo si medita, lo si interroga, come nella Grecia antica s’interpellava l’oracolo di Delfi.”
Con queste parole Barbara Spinelli sintetizza le potenzialità e soprattutto le contraddizioni insite nell’attribuzione del Nobel per la pace all’Unione Europea da parte dell’Accademia Svedese (con la seguente Prize motivation: “for over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe”).
Da un lato il premio ci riporta a “quel ricominciamento della storia, e alla svolta che fu la riconciliazione tra Francia e Germania, che in soli 70 anni avevano combattuto tre guerre. Dalla messa in comune di risorse vitali per i due paesi – il carbone e l’acciaio, fonti di ricchezza e morte – nacque l’Unione che abbiamo oggi.” Fu dunque in primo luogo un impegno per la pace ad avviare il processo di superamento delle logiche nazionali e dei nazionalismi , di creazione di comuni istituzioni politiche per realizzare non il destino di un solo paese ma di più paesi associati. Una delle spinte propulsive si era avuta con il “Manifesto di Ventotene”, scritto nel pieno del secondo conflitto mondiale da Spinelli, Rossi e Colorni, sostenendo la centrale importanza della federazione europea come mezzo per portare la Pace perpetua, nel senso kantiano del termine.
Dall’altro, assegnato in questo momento così critico, il premio assume tratti di dissonanza e appare addirittura – a più d’una voce critica – fuori luogo, perché quella attuale non è l’unione cui i padri fondatori avevano guardato, ma un progetto che arretra invece di completarsi.
Guido Rossi paragona efficacemente l’attuale Unione Europea all’Olimpo degli dei greci, “Cacciato Marte (Ares), il dio della guerra, l’Europa sembra oggi invece caduta nel dominio di Mercurio (Hermes) , il dio del commercio, delle comunicazioni, «predone, ladro di buoi e ispiratore di sogni», come lo descrive l’Inno Omerico a Hermes”: così paghiamo lo scotto della scelta prevalente di procedere con misure tecnocratiche di integrazione economica, con la sicurezza che queste avrebbero portato all’unificazione politica, cosa che in realtà non si è verificata.
E se Romano Prodi elogia il fatto che “Dalla fine dell’Impero romano mai una generazione senza ragazzi morti in guerra. L’Ue ci ha dato 60 anni di pace. ” l’euroscettico olandese, Geert Wilders, ironizza “Il Nobel all’Unione europea, quando Bruxelles e tutta l’Europa stanno collassando nella miseria. Il prossimo cosa sarà? Un oscar a Van Rompuy?”.
Tra le voci critiche vi è chi sottolinea i problemi interni, per esempio le recenti tensioni sociali – dovute alla crisi economica – che hanno portato a violente azioni popolari in Spagna e Grecia e chi i problemi esterni, con una passività nei confronti dei “vicini di casa” e “pochi spazi per azioni di “peacekeeping” all’estero, anche se ce ne sarebbe bisogno (basti pensare a situazioni anche geopoliticamente molto vicine, come la profondissima crisi in Siria e i rapporti tesissimi tra la Turchia e la Siria stessa: un intervento di un’UE politicamente credibile potrebbe essere decisivo” (Jacopo Barbati). E c’è chi, allargando lo sguardo dalla UE all’Europa, cita il genocidio di Srebrenica, che getta comunque un’ombra sul premio e ancora chi ricorda le politiche dei centri di “accoglienza” per gli immigrati o nei confornti dei ROM.
Al di là della diversità di pareri, che del resto rappresenta una ricchezza per una visione di Europa non retorica e stereotipata ma critica e sfaccettata quanto basta, noi pensiamo, riprendendo il pensiero di Habermas, che il premio rappresenti un appello e un incoraggiamento a rinforzare la via della ricerca di una buona politica, basata su ideali, su norme comuni, su politiche economiche fiscali, anche per superare gli angusti orizzonti di un’unione che altrimenti rischia di essere soltanto monetaria.
Ritornando all’inizio: “Un premio così non si riceve soltanto. Lo si medita, lo si interroga.”